Viviana Siviero, Devis Venturelli in Espoarte n. 63, February/March 2010

 

Vestire la città è un compito arduo: l’urbanizzazione ha cambiato profondamente la fisionomia dell’uomo, suo creatore, rendendo banale ciò che fu evento straordinario. Ogni giorno la vita scorre rapida su di un nugolo di eccezionalità, a cui però ci si è assuefatti. È comune favola che l’oggetto inanimato ed ignorato di giorno prenda vita nel momento stesso in cui noi voltiamo lo sguardo per sempre: schiaccianoci e ballerine hanno iniziato così i loro viaggi pindarici e le fantasie raccontano di giocattoli, che scatenano se stessi nella notte per poter tornare poi al loro ruolo di divertimento passivo nel quotidiano, riponendosi al proprio posto con attenzione per far sì che nessuno si  accorga di questa libertà necessaria. Per Devis Venturelli è arrivato il momento di non nascondersi più all’uomo nei meandri della notte. Alcune anime particolarmente allenate a pensare al circostante riescono, infatti, a tramutare pensieri magici e semplici in malie perfettamente rispondenti nell’aspetto alle norme di gusto e di intelligenza contemporanee. L’ironia è senza dubbio un’arma potente soprattutto laddove usata scevra di cinismo, con quella leggerezza aerea tipica del pensiero razionale: in questa accezione l’artista sguinzaglia la sua poetica riservata e, al tempo stesso, inarrestabile. Sembra che il suo sguardo si posi sulle cose che nessuno osserva, su ciò che viene utilizzato, consumato ma che nonostante questo continua a servirci con fedeltà. Oggeti minimi, arredi urbani necessari, normalmente considerati poco nobili, eppure indispensabili. Anche per le quinte d’apparizione è lo stesso: gli occhi dell’artista non cercano le leghe pregiate o i luoghi scintillanti, ma restano attratti da quella periferia felliniana e diagonale, tralasciandone gli esuberi per favorire quell’atmosfera affascinante e decadente di provincia, guardata con affettuosa stima. In ogni sua opera, Venturelli abbandona qualunque connotazione geografica per tracciare attraverso il paesaggio, una serie di ritratti riflessivi che mostrano il super-luogo, quello cioè universale, esportabile ovunque: il suo è un ambiente che si fa teatro di accadimento e di eventi continui, che sono importanti anche se minimi, come lo scorrere di una sagoma e della sua scia traslucida, lungo una parete infinita (Continuum, video 5’ loop, 2008): è come quando una penna scorre su un foglio per raccontare una storia che poi si dovrà necessariamente andare a leggere per averne comprensione. Devis Venturelli è un maestro discreto: il suo medium principe è il video, che non viene trattato attraverso la resa di scene filmiche o intellettualoidi dalla lunghezza inquietante, ma più come se si trattasse di una fotografia in movimento, sempre vigile sulla realtà, per non perdere nulla di quell’aspetto effimero che la rende così preziosa. Osservando i lavori dell’artista, il termine che verrebbe immediatamente in mente è semplicità a cui anteporre la parola complessa; questo perché, se da una parte la visione scenografica che viene imposta è attuabile da chiunque in qualunque momento, non è lo stesso per il pensiero ad essa sottoposto: l’artista, infatti, vuole mettere in evidenza coi suoi modi particolari, tutte quelle relazioni inconsuete che possono intercorrere tra architettura e movimento. Il nodo della sua poetica, al di là dei singoli nuclei di lavoro – come il semaforo piumato, oggetto che regola normalmente i flussi di traffico, che acquista con un semplice gesto lezioso una condotta del tutto differente e finalmente svincolata da qualunque ruolo preconcetto (Traffic light, video dvd 3’ loop, 2008) o il cassonetto dell’immondizia ad apertura manuale, che viene rivestito di pellicce, come una vecchia signora appesantita, in ghingheri per il suo appuntamento settimanale a teatro, aprendosi e chiudendosi senza motivo, come un sarcofago prezioso impegnando in un gesto che così appare sconsiderato (Wheelie bin, c-print 2008) per citare solo due possibili esempi – è da ricercarsi nelle relazioni che intercorrono già, o potrebbero in futuro innescarsi, fra architettura e movimento. Una variazione del consueto potrebbe dimostrare come sia semplice sovvertire una realtà che, invece di attaccarsi a solide certezze, si nutre di piccole ed inutili quotidianità che non devono mai permettersi di derogare dalla norma. Per Venturelli, lo spazio pubblico è costituito da una porzione di superficie abitata, come una scenografiche deve combinarsi con oggetti qualunque per generare la scintilla. Essi, giustamente stimolati dalla visione, si riveleranno infatti come tanti piccoli Cavalli di Troia, impegnati in un progetto di sovversione del reale. È necessario per l’artista, e qui è da ricercare il dato formale della poetica di Venturelli, che tutto ciò che venga espresso attraverso una ferrea dimensione teorica, capace di espandersi nel circostante tramite un approccio fortemente ironico. Gli elementi si mescolano dichiarando la propria fantasia eccessiva, grazie all’opera di liberazione dell’artista che li incoraggia in modo da rendere evidente l’eccesso, senza ombra di dubbio alcuno, attraverso l’impiego di elementi che derivano dagli ambienti dell’allestimento per la moda. Così accade che la realtà venga portata al limite dell’immaginazione come se si trattasse di un’allucinazione: “ le infrastrutture divengono - per usare le parole dell’artista – feticcio perturbante e creano mappe corporali della città”. Siamo dinnanzi ad un sogno seducente ad occhi aperti, ove il grigiore degli elementi viene contaminato da corpi estranei che ne assecondano per volontà espressiva, tanto la natura estetica quanto la forma funzionale. Venturelli sembra sempre attuare una sorta di messa in scena performativa, priva dei limiti temporali oltre che delle connotazioni geografiche, affinché la città possa abbandonare per un momento eterno il proprio ruolo contestuale, per divenire protagonista e portatrice di riflessioni manifeste. L’artista, come un bambino che gioca con le proprie bambole, sembra applicare un mascheramento originale, perché mentre tale escamotage è caro ed abusato, nella pratica artistica comune, lo si trova principalmente sui corpi in carne e fisionomia: qui l’originalità è da ricercare nel solo binomio soggetto-applicazione. Ogni variazione non permanente è attuabile da chiunque in qualunque momento (non è certo difficile infilare una parrucca ad un paracarro, mentre questo se ne sta lì buono e cementificato a proteggere il traffico pedonale – Roadside posts, c-print, 2008 – o infilare gonnelline gitane e fuori moda ad un totemico cestino di carta – Bin, c-print, 2008). Questo crea una nuova realtà che ci risulta distante più nell’immaginazione che nella pratica. L’oggetto mascherato diventa trans gender ed esce così dall’anonimato inascoltato, grazie ad un gesto semplice e per nulla violento, come a voler dichiarare antiretoricamente la propria libertà, in modo che questa si possa un giorno attuare. Nessun obiettivo è stato mai raggiunto senza un percorso doloroso e coraggioso. Il coraggio implica una messa in mostra radicale. (© 2010, Viviana Siviero)