Tutto svanisce e sembra solo un sogno, una visione che sconfina nel mistico concetto di apparizione. La città trasfigura e diventa teatro, temporaneamente. Lo spazio si rifigura in memoria-immagine proprio nell'istante in cui si avvista l'incontro tra previsto e imprevisto, tra consistente ed evanescente, tra concreto e astratto, tra rigido e flessibile, tra duraturo ed effimero, tra realtà e idea. Il fenomeno si documenta in un estemporaneo site-seeing, mappando immagini emozionali, che in pieno paradosso fermano l'impossibile e l'incongruente. L'estasi nella città e dalla città è un itinerarium mentis, geopsichica rappresentazione videografica, che rimane come persistenza propria di uno spazio mnemonico. La città cambia volto ed è parte di una geografia emotiva che induce al trasporto affettivo dello spettatore-passeggero.
Il macro-progetto filmico di Devis Venturelli, che si sviluppa dal 2008 al 2012, è a tutti gli effetti una promenade architecturale, che descrive traiettorie sensuose nell'indagine del mondo urbano.
La ricerca nei territori della città avviene mediante un processo di intervento sullo spazio, che diventa scenario performativo. Tessuti, materiali isolanti, capi d'abbigliamento con le loro textures e la loro vestibilità costituiscono i prodromi per una sperimentazione fondamentale per l'artista che si interroga sulle relazioni tra architetture rigide, stanziali, definitive, impattanti e forme duttili, nomadi, effimere, sostenibili nella loro leggerezza. Fissità e morbidezza, razionalità e spontaneismo sono categorie contrastanti, che delineano palinsesti in cui la visione sconfina nell'utopia. La sovversione degli schemi intransigenti del costruito individua una tensione problematica, che allude all'ironico fraintendimento del concetto di urbanitas - nel senso etimologico di afferente all'urbano - con l'accezione di una normatività del buon senso.
Edifici come eco-mostri, cantieri aperti, non luoghi suburbani sono iconici di un'architettura spigolosa, intransigente e fondata, mentre la parata di fogge creative e tissurali dai colori preziosi rivendica la sua alterità attraverso il movimento e la multiformità percettiva. L'arricchimento semantico delle masse costruttive dà vita ad una poliformità comunicativa che l'azione dell'artista indirizza verso l'anarchitettura e la rivisitazione della progettualità canonica.
Il percorso nella città di Devis Venturelli esordisce con la sublimazione in chiave poetica della biosfera urbana, che diventa un set inconsapevole. Continuum è la performance che racchiude tutti gli stilemi della ricerca successiva. Una danza o forse la rappresentazione della promenade in looping, in cui l'artista-soggetto-passeggero è totalmente immerso, è l'incipit di un singolare panismo urbano. Le superfici incontrollabili non contengono il loro impulso a divenire forma creativa, l'uomo è protagonista-vittima di un virtuosismo che sprigiona energie e riflessi abbaglianti dall'emergere di forze inespresse. Il materiale isolante dell'involucro cangiante è l'oro sfavillante dello status-symbol antropologico che si manifesta nel suo ritualismo liberatorio. Intorno la città è un cantiere, costretta a fare solo da sfondo, impotente nell'interazione con il movimento. Le architetture mobili di Continuum, quasi sculture evocative del dinamismo futurista, illustrano trasformazioni temporanee ed effimere, ma così preziose nella loro spontanea organicità vitale.
Dalla terra di un cantiere si eleva la suggestione arcaica ed arcana con cui la città nel suo atto fondativo diventa terreno, segno e nuova possibilità di spazio, secondo i dettami di un’architettura destrutturata. Tracce di fondazione è il monitoraggio di un’area di scavo sulla quale dovrà sorgere un edificio. Il paesaggio urbano è occultato dagli ingenti sbancamenti e volumi di terra. L’apparenza informe e irregolare del cantiere ingloba le tracce del futuro e i resti del passato, quasi come uno scavo archeologico. Il visionario accostamento tra strutture tessili di paillettes e grezze modularità edificatorie prospetta lo sconvolgimento dei canoni: le opere di fondazione appaiono non finite e soverchiate dalla raffinatezza estetica della finitura del tessuto. L’apparato solenne che riveste la fondazione rimanda ad una simbolica cerimonia ecistica, i cui postumi si leggono nell’aura sacralizzante resa dal materiale lussuoso, in contrasto con la dimensione desertica delle risulte terrose. Si profilano come miraggi nel deserto accampamenti nomadi e oasi che brillano al sole di ulteriori potenzialità abitative. Alla visione si sostituisce l’utopia di un luogo che attende di assumere un’identità rinnovata da un altro rituale mitico di fondazione urbana.
Un cambiamento centrale nella poetica di Venturelli si individua in Superfici fonetiche. La materia non ha più bisogno di corporeità come pretesto al movimento. Una lingua argentata, metallica, quasi tagliente si insinua prepotentemente nella cementificazione suburbana fino a creare un tutto pieno attorno alla corsa di un oggetto non identificabile. La visione di transito trova la sua ragione di esistere nel processo cinetico, che associa nel suo straniamento un paesaggio mentale ad un paesaggio sonoro. Il movimento nasce, si affievolisce e muore tra rovine moderniste desolate. La transitorietà e l’inconsistente fragilità della performance mettono a tacere tutto ciò che sta attorno alla striscia argentata, proiezione onirica della fluidità e della leggerezza, generando una pausa nella rigidità architettonica. La leggerezza è negazione di stabilità e sovversione di ogni gravità, mediante la sospensione aerea di un movimento che aspira all’alterità di una dimensione parallela.
Le modalità con cui viene condotta la ricerca sul materiale si ripropongono nell'interesse per il monumento, nel ritorno alla tendenza già manifestata nella restituzione polisemica degli elementi dell'arredo urbano. Il monumento viene privato della sua aura cultuale, derivata dal suo valore in quanto memoria, per essere ridimensionato nella sfera dell'oggettualità concettuale. In questi termini la dimensione celebrativa si traduce in un'operazione che reinventa la semantica della rappresentazione a favore dell'illusione. Monumento è quindi una citazione delle statue equestri, Acrolito è una traslitterazione dalla tipologia della colonna coclide. Il valore onorario è totalmente svuotato e ricontestualizzato alla luce della collocazione alienante dell'oggetto -monumento. Monumento è epifania in un’area di sosta che diviene celebrativa della sua desolazione e impersonalità. Il ricorso all'ingentilimento di un simbolo del gigantismo e della brutalità stradale è una sorta di apparato liturgico, sacralizzante e sublime. Il mostro gentile si trasforma per divenire icona e superare la sua identità condivisa. Il dinamismo aggressivo diventa ieratica staticità e la funzionalità di trasporto compromessa. Il TIR è così antropomorfa visione che dissacra l’emblematica immacolatezza di un attributo mariano e virginale contaminandosi con il luccichio sontuoso di un sex-symbol. Il velo assume il carattere di una formula d’attenzione in un rituale di apparizione, decodificato e trasposto in una mitologia profana. L'impalcatura acrolitica di una colonna, destrutturata dalla sua accezione di potere, si manifesta in tutta la sua vacuità, mentre camicie hawaiane, souvenir di un turismo vacanziero, vengono spazzate via da un soffio di vento.
Nell'ambito del macro-progetto dell'artista la performance gestuale diviene concetto in Estasi urbane. La promenade continua nella città attraverso la ripresa di dieci telecamere di sorveglianza che assistono allo svolgersi di una danza aerea. Di fronte a tale meccanismo di controllo un nastro rosso scrive nell’aria volute e arabeschi fluttuanti. La sorveglianza rispetto al gesto perde la sua funzione di controllo, in una dinamica che sintetizza il contrasto tra razionalità e immaginazione, tra incomunicabilità e vitalità, tra costrizione e libertà. Il gioco ipnotico del nastro rosso equivale ad un incanto, ad un'apparizione temporanea ed estemporanea, nella consueta visionarietà dell'artista.
L'autonomia del materiale, suadente, morbido e sinuoso rispetto alla rigidità costruita si mantiene come parametro nel riferimento alla metafora fashion di Fleur à porter. Con la medesima ironia, Venturelli osserva la tematica ecologica in relazione al contesto urbano. Ritagli di tessuti a fiori sempre diversi arricchiscono un’antologia botanica, che documenta piccole oasi portatili come ecosistemi di natura possibile in città. Mise en scène biologiche propongono con sottigliezza le ideologie di un ambientalismo di tendenza nelle città, che si manifesta attraverso il salutismo estremo e uno stile di vita dogmatico. I fiori sono smaccatamente appariscenti e connotati da un’iconografia pop, assumendo la forma di membrane che si aggirano per le strade della città, mentre un cinguettio da richiamo rimanda a una natura contraffatta e anacronisticamente assunta come punto di ritorno ad una vita in armonia con l’ambiente.
L'approdo alla città reale è una conquista attraverso il raggiungimento di un punto di vista straniante e aleatorio. Bon Ton Town inaugura la nuova urbanitas in una scorribanda tra rotocalchi di finestre, sbalzi e facciate. La città edificata scorre in anomale angolature, mentre nell’interstizio di cielo si insinuano totem oscillanti, sarcastica installazione di papillon variopinti. Il carattere tra il carnascialesco, il paraliturgico e il performativo sancisce la leggibilità plurima della rappresentazione, allusiva ora di una mascherata, ora di una traslazione processionale, ora di una danza folklorica. Il feticcio è una serie verticale di papillon, accessori del vestiario del cerimoniale sociale, i quali si svincolano dalla loro impettita occasionalità per assumere tinte sgargianti, al di là del gusto comune. Ne deriva una riflessione sul bon ton urbano/urbanistico, inteso come prescrizione deontologica della pratica edificatoria e abitativa. Il grigiore e l’austerità severa si piegano e si deformano nell'allegoria che demolisce ogni speculazione architettonica ed ogni abuso dell’autorizzazione umana a costruire e cementificare. Eterotopia è un languido e decadente ritratto urbano, in cui prevale un vedutismo ormai storicizzato, ovattato dal fruscio onirico che sospende nell'indeterminatezza spazio-temporale gli agglomerati della città in continua espansione. Il luogo urbano ormai è solo una proiezione del pensiero, un brandello di irrealtà, una reminiscenza surreale.
La passeggiata filmica nella città si conclude nel suo vestibolo, nello spazio interstiziale dove tutto è residuale e nulla è compiuto. Scorci di terzo paesaggio animano affreschi di edilizia popolare e natura spontanea, in un clima di frontiera, ultima propaggine di un mondo che svela la sua fragilità. Lo spirito pionieristico di questo hinterland si scopre attraverso fronde di cinture, liane di un'impervia foresta sconosciuta. L'atteggiamento ironico dell'artista realizza in Suburban rapsody una sequenza che ribadisce il divertissement linguistico di un vocabolario polivoco della città, in cui il tessuto è urbano e materiale, l'urbanitas non è solo buona educazione e la cintura accessorio del vestiario e confine di una città con la sua solitudine.
Hic sunt leones.
(© 2012, Fabio Carnaghi)
Everything disappears and seems only a dream, a vision that flows into the mystical notion of appearance. The city is transfigured, turning into a temporary theater. Space, in the form of memory-image, takes refuge in the very moment when the encounter between predictable and unpredictable, substantial and evanescent, concrete and abstract, rigid and flexible, lasting and ephemeral, reality and idea, becomes visible. This phenomenon is documented in an extemporaneous site-seeing, through the mapping of emotional images which capture the impossible and the incongruent in a completely paradoxical way. Ecstasy in the city and from the city is an itinerarium mentis, a mind path, a video-graphic, geo-psychical representation that persists not unlike the mnemonic space. The face of the city is changing, it becomes part of an emotional geography that encourages the affective transportation of the spectator-passenger.
Devis Venturelli's major film project, which he developed from 2008 to 2012, is to all effects a promenade architecturale, an architectural walk that traces sensuous paths in the exploration of the urban world.
Research in city areas is carried out through a process of intervention on space, which becomes a performance scene. Fabrics, insulating materials, garments, with their textures and wearability, are the early stages of an experimentation that is fundamental for the artist. He questions the relationships between rigid, permanent, definitive architecture that has an environmental impact and pliable, nomadic, ephemeral forms that are sustainable by virtue of their lightness. Fixedness and softness, rationality and spontaneity are conflicting categories that contribute to shape structures where vision turns into utopia. The subversion of the rigid schemes of built objects exposes a problematic tension, which has to do with an ironical misunderstanding of the notion of urbanitas, in its etymological meaning of urbane, that is, concerning the norms of common sense.
Buildings like eco-monsters, architectural monstrosities, open building sites, suburban non-places, are the icons of a sharp, inflexible, established architecture, while the parade of creative textural forms, with its precious colors, reclaims its otherness through perceptive movement and multiplicity. The semantic enhancement of building masses generates a communicative multiformity, which in the artist's action tends towards an-architecture - recasting the academic design canon.
The path through Devis Venturelli's city opens with a poetic sublimation of the urban biosphere, which becomes an unintentional film set. Continuum is the performance that contains all the stylistic features of his following research. A dance - or maybe a representation of the promenade in looping, wherein the artist-subject-passenger is fully immersed - is the beginning of an unusual urban panism. These uncontrollable surfaces do not contain the drive towards becoming a creative form. Humans are both the protagonists and the victims of a virtuoso performance that unleashes energies and dazzling reflections, while unexpressed forces emerge. The insulating material of the iridescent wrapping is the shining gold of an anthropological status symbol, which manifests itself in its liberating rituals. All around, the city is a building area, forced to serve as a mere background, powerless in its interaction with the movement. The mobile architectures of Continuum, almost like sculptures reminiscent of a Futurist dynamism, represent transformations that are temporary, ephemeral, and yet so precious in their spontaneous, organic vitality.
From the soil of a building site rises the archaic, arcane suggestion, whereby a city, in the act of its foundation, becomes a terrain, a mark, a new possibility of space, following the norms of a de-structured architecture, as opposed to the one-sidedness of a solid construction that impacts the environment.
Tracce di fondazione [Foundation traces] consists in the monitoring of an excavation area, where a building is to be erected. The urban landscape is hidden by massive excavation and lumps of earth. The building area is both the subject and the object of a thorough exploration of space, and of the suspended temporal dimension that characterizes this particular moment in the building process. The formless, irregular appearance of a building site incorporates traces of the future as well as remains of the past, almost like an archaeological excavation. The visionary juxtaposition of beaded textile structures and rough building modularities suggests a subversion of canons whereby, paradoxically, the foundation work appears unfinished and seems to be overwhelmed by the aesthetic sophistication of the fabric's finish. The solemn display that surrounds the foundation refers back to a symbolical ecistic ceremony, whose aftermath is visible in the sacralizing aura of the luxurious material, which contrasts with the desert-like setting of the earth debris. Like mirages in the desert, the silhouettes of nomad camps and oases begin to stand out, shining in the sun of other living possibilities. Vision is replaced by the utopia of a place, which is waiting to acquire a renewed identity from another mythical ritual of urban foundation.
A pivotal change in Venturelli's poetics takes place with the work Superfici fonetiche (Phonetic Surfaces). Matter no longer needs a physical body as a pretext for movement. A silver, metallic, almost razor-sharp tongue, forcefully makes its way through the suburban cement jungle, which creates a full space around an unidentifiable running object. This transit vision has its raison d'etre in the estranging kinetic process that associates a mental landscape and a sound landscape. Movement begins, slows down and dies among desolate modernist ruins. The transitoriness and insubstantial frailty of the performance silences everything around the silver strip, a dream-sequence projection of fluidity and lightness, which makes the architecture less rigid for a moment. Lightness is the negation of stability, the subversion of gravity, in every sense, through an aerial, suspended movement that aspires to the otherness of a parallel dimension.
Venturelli's approach to materials research is also reflected in his interest in monuments. Here the artist comes back to a trend that had already emerged in his polysemous rendition of street furniture elements. The monument is deprived of its cultural aura, deriving from its memorial value, and is brought back to the sphere of conceptual objectuality. In this perspective, the dimension of celebration undergoes a process whereby the semantics of representation is recast in terms of illusion. Monumento is therefore a citation of equestrian statues, and Acrolito is a transliteration of the cochlis column typology. The commemorative value is completely erased and re-contextualized in terms of the estranging position of the object-monument. Monumento is the epiphany of a parking bay that celebrates its own desolation and impersonality. The use of a toned-down version of the symbol of giantism and street brutality par exellence is a sort of liturgical apparatus, sacralizing and sublime. The gentle monster is transfigured, becoming an icon and overcoming its conventional identity. Its aggressive dynamism turns into a hieratic, static condition as its transport function is compromised. The truck therefore becomes an anthropomorphic vision that debunks the emblem-like, immaculate purity of a virginal, Marian attribute, and is contaminated by the luscious glimmering of a sex-symbol. The veil acquires the value of an attention-grabbing formula in a ritual of appearance, a hierophany that gets recoded and transposed into a profane mythology. Once its connotations of power have been dismantled, the acrolithic structure of a column is exposed in all its vacuousness, while Hawaiian shirts, souvenirs of holiday tourism, are swept away by a gust of wind.
Within the artist's larger project, the gestural performance becomes a concept in Estasi urbane. Our walk through the city continues with the footage of ten surveillance monitors that record the unfolding of an aerial dance. Before these control devices, a red ribbon writes floating whirls and arabesques in the air. In the face of the aerial gesture, surveillance loses its control function, activating a mechanism that reconciles the dualism of rationality and imagination, incommunicability and vitality, constraint and freedom. The hypnotic dance of the red ribbon becomes an enchantment, an ephemeral, casual apparition in the artist's typically visionary style. The autonomy of the material, which is smooth, soft and flexible compared to the stiffness of a building, remains the bottom line also in the fashion metaphor of Fleur à porter. With the same irony, Venturelli looks at the theme of ecology in relation to the urban context. An endless assortment of floral textile cuttings populates a rich botanic anthology that documents small portable oases, like possible natural ecosystems in the city. These biological theaters subtly allude to the ideologies of trendy environmentalism in urban settings, which take the form of health fanaticism and a dogmatic lifestyle. The flowers are blatantly eye-catching and reminiscent of the pop iconography, taking on the shape of membranes that move about the city streets, while a chirping, like a call note, evokes a fake nature, anachronistically taken as the goal of a life in harmony with the environment.
Landing at the real city means arriving at an estranging, chance-driven point of view. Bon Ton Town introduces this new idea of urbanitas with a fast ride among a carpet of windows, embossings and facades. The built city flows through a succession of unusual angles, while the visible portion of sky is occupied by a series of oscillating totems, a sarcastic installation consisting of multi-colored neckties. The atmosphere, half-way between carnival, pseudo-liturgy and performance, suggests that the representation has multiple reading levels, alternatively alluding to a masquerade, a religious procession, and even a folk dance. The fetish is actually a vertical series of neckties, clothing items that are typical of social ceremony. Here, the neckties free themselves from their ceremonial stiffness and take on bright, bold tints that defy conventional taste. The result is a reflection on urban/city-planning bon ton, i.e. good taste, meaning the set of deontological prescriptive norms of building and housing. The stern, austere grayness of the urban landscape is bent and deformed into an allegorical vision that demolishes all kinds of property speculation and abuse of the human license to build and overbuild. Eterotopia is a languid, decadent urban portrait dominated by a historicized way of portraying the city, softened by the dreamlike rustle of textiles, which suspends the ever-expanding built-up urban area in an indeterminate space and time. The urban area comes to be just a projection of thought, a piece of unreality, a surreal reminiscence.
Our filmic walk through the city ends in its vestibule, in the interstitial space where everything is residual and nothing is achieved. Patches of third landscape liven up council estate frescoes and spontaneous natural growth, in an atmosphere of frontier - the last station of a world that does not hide its frailty. The pioneering spirit of this hinterland area is suggested by the belt fringes, like lianas of a wild, unknown forest. In Suburban rhapsody, the artist's ironical attitude produces a sequence that again plays on a polysemic city vocabulary, where fabric means urban fabric and material at the same time, urbanitas is more than good education, and a belt is not just a clothing item but the outer boundary of a city, and of its loneliness.
Here be dragons.