Il contesto del contemporaneo ha modificato nel tempo la propria struttura in maniera graduale, in base alle coordinate impulsive dettate dall’uomo, dalle sue transumanze migratorie e dai suoi desideri, tramutati in azione. Così, quello che dovrebbe essere mutuo scambio, ha ceduo all’abituale arroganza dell’animale più egocentrico che mai abbia visto la luce, che ha prevalso indefessamente sul contenuto. Contemporaneamente però, su tali abitudini, hanno continuato ad agire anche altre forze, in nome di quella insopprimibile necessità che è propria delle “cose” del mondo: è tutto questo tourbillon che induce al movimento chiamato evoluzione.
Osserviamo l’oggi circostante: l’alfabeto pubblicitario soverchia tutto e tutti in maniera osmotica, saturando l’aria e decretando la vita, ma soprattutto concorre a generare la città nell’essenza e nella fisionomia, città che l’uomo abita e nella quale si muove, più o meno spasmodicamente, ignorandola, al di là delle mere funzioni in cui essa e i suoi elementi lo asserviscono. Uno dei compiti dell’artista è quello di raccogliere l’inascoltato, per poterlo restituire al mondo in altra veste. Devis Venturelli regala la propria sensibilità ai nostri occhi, creando una serie di ritratti urbani che sostituiscono i volti organici e spesso inidentitari, con quelli di oggetti comuni, tanto indispensabili, quanto dati per scontati. Egli si accosta alla riflessione in maniera anomala ed inaspettata, affrontandola con semplicità disarmante; mette in scena con intelligenza un trattato sulla libertà e sull’identità, attraverso la pratica del “mascheramento”, tanto cara alla tradizione artistica del novecento, “giocando”, come i bambini con le loro bambole. I suoi sono volti vissuti, abbigliati di vanitosi ammennicoli, che non hanno funzione umanizzante ma, piuttosto, lusinghiera e mediatoria. I dettagli eccentrici vengono inseriti realmente nel girato, divenendo simbolo concreto di un’esperienza vissuta, mostrando la nuova realtà attraverso un loop di video-sequenze animate, in cui azione e movimento sono appena percettibili. L’eccesso viene inserito in modo che chi lo indossa non passi inosservato, sfiorando l’aggressività estetica, come fosse un tentativo di integrazione estremo ed irreversibile. Si giunge alla costruzione del transgender, attraverso il mascheramento, senza intaccare la loro funzione quotidiana, che continua ad essere assolta, nonostante l’abito: i lavori di Venturelli sono un grido antiretorico al bisogno comune di libertà, che avviene attraverso la messa in discussione dolorosa e coraggiosa di un ruolo precostituito: chiediamoci se non sia il caso di abbandonare i vecchi costumi e trasferirsi in questa città, con l’intendo che non sia più “altra”.
Viviana Siviero Il tuo è un lavoro essenziale, capace di spalancare porte su spazi di riflessione sterminati. Ci narri di te attraverso i tuoi lavori?
Devis Venturelli Le mie opere mettono in evidenza relazioni inconsuete fra spazio urbano e corpo, fra architettura e movimento, come sovversione della realtà e delle consuetudini sociali precostituite. Lo spazio pubblico è per me contemporaneamente spazio e oggetto dell'intervento di trasformazione della realtà, luogo di esibizione e oggetto esposto: il tempo in cui si realizza, corrisponde al tempo della visione di chi incontra casualmente l'opera. Ciò che mi interessa è mettere in crisi la sicurezza degli oggetti, portando al limite le regole costitutive e specifiche degli elementi su cui opero, seguendo la dimensione imponderabile e aleatoria dello svolgersi del lavoro. Nel mio lavoro artistico si confrontano un approccio istintivo, giocoso e ironico del reale con una dimensione teorica e concettuale rigorosa.
V.S. La mia introduzione rappresenta solo una delle possibili letture, o meglio un’onda di pensiero scaturita nella mia mente dopo aver pensato ai tuoi lavori.
D.V. L’attitudine a sperimentare modalità inconsuete di materiali standard per l’architettura o ad utilizzare elementi eterogenei come piume o pellicce in modo costruttivo, è frutto della mia esperienza in materia di interni ed allestimenti per la moda. Negli interventi di “arredo urbano”, attraverso una procedura allucinatoria e rigorosa, trasformo la realtà, portandola ai limiti dell'immaginario e definendo una serie di aforismi-paradossi della società. Gli oggetti di arredo urbano, non sono più solamente infrastrutture funzionali ingegneristico-meccaniche, ma punti perturbanti di una mappa corporale della città. Come totem o feticci, costumizzati e personalizzati, narrano di evocazioni e suggestioni diverse, ci guardano o ammiccano. Gli oggetti assumono una vitalità sconcertante nella percezione quotidiana, fra enigma e seduzioni alla moda, fra una dimensione apotropaica della realtà e un'astrazione barocca. Interpretano lo spazio urbano, come personaggi di una sceneggiatura non scritta ed in trasformazione, come fosse un sogno ad occhi aperti, a tratti seducente, ma dai risvolti inquietanti.
V.S. Ti piace vestire le cose di una narrazione implicita, data dai materiali che giustapponi. Questo è ciò che hai affermato, ci spieghi nel dettaglio questa nuova ed inedita produzione?
D.V. Abaco di un'altra città è un progetto concettuale di arredo urbano in video. E’ la definizione di una piattaforma di oggetti possibili per la costruzione di uno spazio urbano “altro”. I video in mostra possono essere anche intesi come "prototipi teorici", strumenti per la costruzione di un improbabile progetto urbanistico. In mostra vengono presentati 4 video-oggetti come esito di altrettanti interventi: in alcuni video vengono riportate nel tempo la successioni di ipotesi possibili, come si trattasse di un inventario o di un campionario.
V.S. Se si pensa in generale alla storia, la fotografia è un medium piuttosto giovane, che ha avuto la fortuna-sfortuna di essere protagonista di un’epoca rapida, in cui tutto viene superato velocemente.
D.V. Una foto è un frame di tempo. I lavori presenti in mostra sono foto in movimento, in cui i cambiamenti si snodano in inquadrature fisse, fra il ritratto e la nature morta. Le immagini si articolano in inquadrature astratte, come finestre su frammenti di realtà. La complessità della stratificazione urbana è solo evocata, non rappresentata: vediamo solo strade, asfalto grigio, uno squarcio di cielo e molto traffico, minime presenze umane.
V.S. Traffic light (2008, 3’ loop) è l’emblema della mostra: con le sue piume di struzzo in coordinato ai colori “del proprio lavoro” sembra una vera e propria regina del deserto.
D.V. Su ogni oggetto viene inserito un elemento estraneo che porta all'insignificanza la dimensione costitutiva e il senso dell'oggetto stesso e, pur mantenendo inalterata la dimensione funzionale, apre interpretazioni e riflessioni diverse della realtà. Ciò di cui parli è un trans-semaforo inteso come sistema di gestione del traffico. Un cortocircuito fra l'organizzazione ingegneristica dei flussi urbani e la frivolezza seducente e ammiccante di una presenza piumata. Il video mette in evidenza l’altro tempo, quello dell’abbandono. Il vento muove aritmicamente le piume colorate in modo che ordine, tempo e durata della sequenza tricromatica, si disarticolano progressivamente. Tutto questo, unito allo spaesamento nel vedere ciò che è serio, improvvisamente frivolo, induce ad uno straniamento percettivo: i nostri movimenti all'interno dello spazio urbano sono organizzarti e temporizzati all'interno di griglie preordinate, che strutturano il quotidiano. La piuma, come elemento estraneo, mobile e incongruente, evidenzia il limite dell’oggetto nella sua funzionalità.
V.S. Il semaforo non è l’unica “modella a tempo determinato” che hai “assoldato”.
D.V. No, ci sono anche i Cestini (Bins, 2008, 4' loop), un video che mostra il margine di una via a scorrimento veloce sulla quale si succede una carrellata di “gonne di strada”. Un inventario di possibili fogge, balze e fantasie, trasformano il semplice contenitore funzionale in un oggetto enigmatico e seducente. Presenze ermetiche, silenziose e fragili che oscillano allo sfrecciare delle auto in corsa. Si tratta di una passerella di “gonne vuote” come ad evidenziare la superficialità e la prevaricazione con cui vengono affrontate le questioni del femminile all’interno della nostra società, dove l’effimero svuota il contenuto. Questi indumenti smessi e a tratti demodè sono stati prestati ai cestini da donne di diversa estrazione sociale ed età, per creare una rete di suggestioni differenti. Con un ribaltamento, la donna di strada e la zingara, divengono arredi urbani secondo la nostra percezione: presenze “inanimate”, parte di quel paesaggio indistinto a cui non prestiamo attenzione.
V.S. Passerella di gonne vuote per un “oggi” che aspira alla “bellezza velina”; umanità considerate inferiori assimilare come pericolo o semplice paesaggio, temi attualissimi e coi quali è difficile confrontarsi. Parlaci dell’elegantissimo Cassonetto (Wheelie bin, 2008, 2’ loop) rivestito di pellicce da donna.
D.V. Coi suoi abiti eleganti tanto ridondanti, apre e chiude le fauci come una pelosa macchina animale. Il meccanismo manuale è fuoricampo e viene azionato ripetutamente a vuoto. L’azione, non essendo finalizzata all’operazione di far entrare i sacchi di rifiuti, diviene "celibe”, insensata ed assurda. Sembra un ventriloquo senza parole, l’inquietante bocca della verità della società dei consumi. Il cassonetto è interpretato come un sarcofago di lusso: l’edonismo della spazzatura viene presentato come ultima tappa prima dell’incenerimento.
V.S. L’ultimo lavoro che presenti mostra dei paracarri cosiddetti pinguini (Roadside posts, 2009, 5' loop)
D.V. I paracarri, oggetti anonimi dalla semplice struttura geometrica che servono a proteggere aree pedonali dal traffico veicolare, acquistano una personalità. Sono ermetiche sculture di capelli, talora accumulati altre volte pettinati, giustapposti o semplicemente appoggiati alle diverse strutture sottostanti diverse per struttura volumetria e dimensione, small, medium e large. Il video è immerso nel silenzio perché parla di una città semideserta, in cui pochi passi umani ritmano i cambi di scena. Il passaggio di persone sfocate in primo piano sottolinea paradossalmente come l’oggetto sia più umanizzato dell’uomo stesso di cui restano soltanto tracce minime in controcampo.
V.S. Devis, un'ultima domanda: dove hai allestito i tuoi set, che tipo di commenti hai carpito agli ignari passanti durante, il girato?
D.V. In genere passando in auto mi colpisce una situazione apparentemente insignificante, ma che ha in sé un potenziale di trasformazione. In genere sono spazi interstiziali, margini più o meno defilati che incontro casualmente. L’inserimento di elementi spiazzanti, di varianti palette di colori e materiali, difficilmente viene percepito. I commenti istintivi delle persone però, sono interessanti, poichè evidenziano letture del lavoro differenti ed inaspettate. Quando ho rivestito il cassonetto, un padre e un figlio, si sono fermati interessati all'acquisto delle pellicce; sarebbe stato effettivamente singolare l’esposizione di pellicce su di un cassonetto, in una zona industriale di un paese di provincia, di domenica mattina ma, allo stesso tempo, plausibile. Per il semaforo, ho notato che tendeva a disorientare il traffico, prova effettiva della riuscita, ritardandolo. C'è chi chiede interessato, c'è chi è infastidito, e c'è anche chi, passando, non vede nulla e prosegue il suo cammino. Il segreto della percezione è racchiuso nello sguardo ed è determinato dal tipo di ascolto che ogni essere sa instaurare con la realtà.
The contemporary world has modified its own structure over time, gradually, according to the impulses and coordinates given by humankind, its migratory movements and its desires, turned into action. So what should be a mutual exchange surrendered to the usual arrogance of the most self-centered animal ever to have inhabited the planet, and this arrogant attitude invariably prevailed over content. Yet, at the same time, other forces continued to influence such bad habits, in the name of the irrepressible need inherent in the "things" of the world. It is this whole whirlwind that drives the movement we call evolution.
If we look at the world that surrounds us today, we see the language of advertising dominating everything and everyone, osmotically filling up the air we breathe and dictating how we must live our life. But above all, advertising plays a key role in shaping urban centers, both in their essence and outer appearance, creating the space where humans live and move, more or less frantically, ignoring its presence, except for its basic functions and elements, to which they are subservient. One of the tasks of an artist is to capture unheard voices and make them resound again in the world under a different guise. Devis Venturelli offers his sensitiveness to our gaze, creating a series of urban portraits where organic faces, often lacking an identity, are replaced by everyday objects that are as indispensable as they are taken for granted. He has an untypical, unexpected way of approaching issues - a disarming simplicity. He uses his intelligence to stage a kind of treatise on freedom and identity through the practice of 'masking', a tradition that has a very special value in Twentieth century art. He plays, like a child would play with his dolls. His faces tell us about life, adorned as they are with dandy fripperies, whose function is not to humanize, but to cajole and mediate. Eccentric details are actually introduced into his film footage as the tangible symbols of a lived experience, and show the resulting new reality in a loop of video-animated sequences where action and movement are hardly perceptible. Excess is also introduced, in such a way as to make it visible on those who wear it, in an almost aggressive esthetic move, like an extreme, irreversible strategy of integration. Masking things leads to the construction of a trans-gendered identity, which does not, however, affect the everyday function of the work, which it continues to perform despite its disguise. Venturelli's works are anti-rhetorical screams that voice our shared need for freedom through the painful but fearless questioning of established roles. It is worth pondering whether we should throw away the old costumes and move to this town, wishing that it be no longer 'alien'.
Viviana Siviero Yours is an essential work that can open windows onto infinite spaces of reflection. Would you tell us a bit about yourself through your works?
Devis Venturelli My works reveal unusual relationships between urban spaces and the body, between architecture and movement, as a way to subvert reality and established social conventions. At the same time, public spaces are both the places and the objects of my reality-changing interventions, they are exhibition spaces and exhibited objects at the same time. The time it takes to create them coincides with the time of vision of those who stumble upon the works. I'm interested in destabilizing the security of objects by taking the specific rules that make up the elements I operate upon and pushing them to extremes, following the unfathomable, hazardous path of the creative process. My artistic practice combines two different approaches to reality: one is instinctive, playful and ironical, the other strictly theoretical and conceptual.
V.S. My introduction is just one of the possible readings of your works, or better a wave of thoughts that came to my mind after reflecting on them...
D.V. The tendency to experiment with unusual functions of standard architecture materials, or to use such outlandish elements as feathers or fur for construction purposes comes from my experience in interior design and fashion fitting.
In my 'urban furnishing' interventions I use a hallucinating but rigorous process to transform reality, carrying it to the boundaries of imagination and defining a series of social aphorisms, or paradoxes. The urban furnishing objects are no longer simple engineering-mechanical infrastructures defined by their function, but disturbing spots on a map of the city as body. Like totems or fetishes, customized and personalized, they evoke and suggest different things, they look or wink at us. The objects, in our everyday perception, become charged with an overwhelming vitality, oscillating between enigma and the seductions of fashion, between baroque abstraction and an apotropaic vision of reality. They interpret the urban space, like characters in an unwritten, ever-changing script, like a daydream, sometimes seductive, but also in some way disturbing .
V.S. You like to clothe things with an implicit narration, resulting from the materials you juxtapose. This is how you described the process. Could you elaborate on this new, unique production?
D.V. Abaco di un'altra città [Abacus of another town] is a conceptual project for video urban furnishing. It is a container for a series of possible objects to be used in the construction of an 'other' urban space. The videos in the exhibition can also be read as 'theoretical prototypes', tools for designing an improbable city-planning project. The show features 4 video-objects resulting from as many interventions. Some of them reproduce the succession of possible hypotheses in time, as in an inventory or sample catalog.
V.S. If we think of history in general, photography is a fairly young medium, and has had the fortune, or misfortune, of playing a key role in a high-speed age where everything gets surpassed very quickly…
D.V. A photograph is a time frame. The works featured in the show are moving photos where changes happen within fixed framings, half-way between portrait and still life. Images form in abstract framings, like windows opening onto fragments of reality.The complexity of urban layering is only hinted at, not represented - we only see streets, grey asphalt, a patch of sky, and a lot of traffic, with human presences reduced to a minimum.
V.S. Traffic light (2008, 3’ loop) is the emblem of the exhibition - with its ostrich feathers matching the colors of 'your own work', it really looks like a queen of the desert.
D.V. Each object is fitted with a foreign element, which neutralizes both the constitutive aspects and the meaning of the object itself, and, although preserving the functional aspect as it is, opens up the object to other interpretations and reflections on reality.
What you mentioned is a 'trans-traffic light', designed as a traffic management system. A short-circuiting between an engineer's planning of urban flows and the seductive, winking frivolity of a feathered presence. The video highlights the 'other' time, that of abandonment. The wind a-rhythmically moves the colored feathers so that the order, time, and duration of the three-chromatic sequence get progressively disarticulated.
All this, coupled with the viewer's loss of perspective as they see serious things suddenly turning into something frivolous, causes an estrangement of perception: our movements within the urban space are now organized an temporized within pre-ordained grids that structure our everyday life. The feather, as a foreign, mobile, incongruous element, marks the boundary of the object as a functional thing.
V.S. The traffic-signal is not the only 'temporary female model' you have 'employed'...
D.V. No, there are Cestini (Bins, 2008, 4' loop) - a video showing the side of a high speed road, which becomes the stage of a 'street skirts' parade. An inventory of all possible styles, flounces, and patterns that transforms a simple, functional container into a mysterious, seductive object. Hermetic, silent, fragile presences oscillate as cars speed by.
It's a catwalk of 'empty skirts' that seems to point to the shallowness and aggressiveness of our society in dealing with women's issues, where the ephemeral drains the content of things. These second-hand, sometimes old-fashioned clothes were lent for the Bins project by women of different social condition and age, in order to create a web of different suggestions. In a reversal move, the street hustler and the gypsy woman are now perceived as urban furnishings - 'inanimate' presences belonging to an undifferentiated landscape that we do not even apprehend.
V.S. A catwalk of empty skirts for a 'today' that aspires to a 'flimsy' kind of beauty. Human presences are regarded as inferior, associated with danger or simply with the landscape they inhabit. These are hot yet tricky topics. Tell us about the lush Cassonetto (Wheelie bin, 2008, 2’ loop), covered with women's fur coats...
D.V. With its elegant, bombastic outfit, the Cassonetto opens and closes its jaws like a furry animal machine. The off-screen manual machinery is repeatedly operated at idle, so that the action is no longer aimed at putting the garbage sacks in, and therefore becomes 'orphaned' and absurd. It almost seems like a ventriloquist without words - the disturbing 'mouth of truth' of consumer society. The Cassonetto is understood as a luxury sarcophagus, and this 'garbage hedonism' is cast as the ultimate station before incineration.
V.S. The last work you are presenting features so-called 'penguin' roadside posts (Roadside posts, 2009, 5' loop)
D.V. Roadside posts are anonymous objects with a geometric structure, whose function is to protect pedestrian areas from motor traffic, but here they acquire a personality of their own. They are hermetic sculptures made of hair, sometimes in chignons, other times combed, juxtaposed, or simply resting on the underlying structures, which are different in construction, volume and size - small, medium, and large. The video is plunged in utter silence, because it tells about a half-desert town where only a few human steps mark the rhythm of scene changes. The passage of blurred people on the foreground paradoxically shows how an object be more humanized than humans themselves, who leave only minimal traces behind them in reverse shots.
V.S. Let me ask you one final question, Devis. Where have you mounted your sets, and what sorts of comments did you get from unaware passers-by during the shooting of the videos?
D.V. In general, when I drive by a landscape, I am struck by apparently insignificant situations, which nonetheless hold a potential for change. They are usually interstitial spaces, more or less hidden margins I simply stumble upon. The introduction of estranging elements or variants in color palette and materials is seldom perceived. However, people's instinctive comments are interesting, because they reveal different, unexpected readings of the work. When I was covering the bin with furs, a father and a son stopped and told me they were interested in buying them. Actually, exhibiting fur coats on a dustbin, in the industrial area of a country town on a sunday morning would be quite unusual, yet not implausible. As for the traffic light, I noticed that differing it tended to disorient the traffic, which is the very proof of the action's success... Some people ask curious questions, some are bothered, others even fail to notice anything and simply walk on. The secret of perception is hidden within the look and is determined by each individual's ability to listen to reality.